Lo psicologo come farmaco.
L’importanza di conoscersi per aiutare a conoscersi.
Cosa fa uno psicologo? Cos’è uno psicologo? Come contribuisce al benessere dei suoi pazienti? Cosa signofica “lo psicologo come farmaco”?
Tra le varie risposte che si potrebbero dare ce n’è una di particolare impatto che apre a interessanti riflessioni: lo psicologo è quel professionista che prescrive se stesso.
Lo psicologo aiuta l’altro “somministrando” se stesso come un farmaco.
L’essere un farmaco per il paziente può creare nel professionista un sentimento di ansia, alimentato anche dall’insicurezza che spesso accompagna ognuno di noi. Tale insicurezza, però, è da considerarsi parte della sua storia di vita, quindi parte di ciò che lo rende quello che è. Quello che viene chiesto allo psicologo è di trasformare questa insicurezza in un “componente” utile, all’interno della sua composizione di “farmaco”, per la mente del suo paziente.
Un metodo fondamentale è sicuramente il percorso individuale in cui è possibile narrare la propria storia di vita e ri-raccontarla insieme al proprio terapeuta in chiave diversa.
Come scrive James Hillman, “La capacità della psicoterapia di guarire, dipende dalla sua capacità di continuare a ri-raccontarsi, in rinnovate letture immaginative delle sue storie. […] La psicoterapia avanza solo attraverso la regressione, ritornando sul suo materiale più volte, riscrivendo la sua propria storia.” (Hillman J., 1983, pp. V, 36).
Tornando all’esempio del farmaco, è importante, per il futuro psicologo (come persona e come professionista), essere a conoscenza di quella che è la sua “composizione” in termini sia di “principi attivi” sia di “effetti indesiderati/collaterali”, quindi di arrivare a conoscere se stesso, nei propri punti di forza e nelle proprie debolezze.
“Conosci te stesso”
“Conosci te stesso alla maniera di Jung significa divenire familiari con i dèmoni, dischiudersi ad essi e ascoltarli, cioè conoscerli e distinguerli” (ibidem, p. 69).
“Conosci te stesso” è anche legato alla comprensione del tipo psicologico nel quale ciascuno di noi rientra. Jung distingue i tipi psicologici in due categorizzazioni generali, orientate dal movimento della libido, che definisce come tipo introverso e tipo estroverso. Queste categorie si possono ritrovare in persone di qualsiasi sesso, età e di qualsiasi livello di istruzione e cultura, inoltre sembrano essere predisposizioni individuali non connesse alle influenze dell’ambiente. Per Jung ciò trovava dimostrazione nel fatto che due fratelli, in condizioni normali, nati dagli stessi genitori e cresciuti nello stesso ambiente possono rientrare uno nel tipo introverso, l’altro in quello estroverso. In generale, il tipo introverso si caratterizza in quanto “[…] si comporta astraendo, pensa sempre a privare l’oggetto della sua libido, quasi dovesse difendersi dal suo strapotere. L’estroverso invece ha un atteggiamento positivo nei confronti dell’oggetto.” (Jung C.G., 1921, p. 262). Inoltre, il tipo estroverso “[…] fa costantemente dono di sé e si consegna al mondo […]” (ibidem, p. 263) mentre l’introverso tende a “[…] difendersi dalle sollecitazioni esterne, a trattenere (dentro di sé) il più possibile le energie che sono in diretto rapporto con l’oggetto e a crearsi invece una posizione più forte e più sicura possibile.” (ibidem, p. 263).
I tipi psicologici
Queste due categorie, a loro volta, vengono definite in modo più preciso in base alla funzione principale che orienta e permette l’adattamento dell’individuo, distinguendo quattro funzioni di cui due irrazionali (sensazione e intuizione) e due razionali (sentimento e pensiero). Si avranno quindi, dalla combinazione di categoria generale e funzione, otto tipi psicologici:
– introverso di sensazione, caratterizzato dalla capacità di fotografare le proprie parti interne;
– estroverso di sensazione, caratterizzato dalla capacità di fotografare il mondo;
– introverso di intuizione, dotato di facoltà sciamaniche e profetiche e dalla capacità di percepire dentro di sé i cambiamenti (un esempio ne è Nietzsche);
– estroverso di intuizione, dotato di buone capacità di cogliere le evoluzioni future in base ai dati esterni;
– introverso di sentimento, caratterizzato da modi di pensiero e sentimentalismi rigidi con vissuti di incapacità o pudore nell’espressione delle emozioni (un esempio ne è Freud);
– estroverso di sentimento, caratterizzato dalla manifestazione di giudizi aprioristici;
– introverso di pensiero, l’interesse risulta focalizzato sul mondo interiore e astratto (come quello della matematica) e sono presenti buchi emotivi (un esempio ne è Kant);
– estroverso di pensiero, caratteristico di persone che dimostrano di sapere come funziona l’oggetto del loro interesse (un esempio ne è Voltaire).
Come si fa a conoscersi per aiutare l’altro a conoscersi?
Spesso, anche per lo psicoterapeuta in formazione, risulta molto difficile il tentativo di auto-inserirsi in uno solo di questi tipi, per quanto ognuno di noi sia governato da una funzione primaria (introversa o estroversa) e due secondarie (sensazione, intuizione, sentimento o pensiero). Può capitare di ritrovarsi contemporaneamente in tipi psicologici molto differenti tra di loro, sarebbe interessante capire davvero in quale di questi tipi ci avrebbe fatti rientrare Jung in persona, in base agli individuali modi di adattarsi al mondo e in base alle proprie storie di vita.
Per concludere, in base a quanto detto fin ora sarebbe importante per ogni giovane psicoterapeuta in formazione vivere delle esperienze formative che permettano di vedere il modo in cui il proprio inconscio si attiva e quali sono le tematiche che potrebbero portarlo a colludere con il paziente.
Tali esperienze stimolano riflessioni che portano a chiedersi se determinate aree sono state analizzate a sufficienza e quanto queste possano influire sulle capacità di ascolto critico e di accoglienza davanti a pazienti che portano tali tematiche in seduta e, soprattutto, quanto sia alto il rischio di colludere con tali pazienti.
Come scritto all’inizio, anche queste aree fanno parte della propria storia di vita, fanno parte di quello che si è e che il giovane psicologo sta imparando a conoscere. Solo ri-raccontando la propria storia all’interno dello spazio di analisi personale si potrà distillarla e rendere se stesso uno psicoterapeuta fruibile come “farmaco” e una persona con strumenti nuovi per provare a essere anche per sé un “farmaco di auto-medicazione”.
Bibliografia:
Hillman J. (1983), Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1984.
Jung C.G. (1952), Risposta a Giobbe, in Jung C.G., Opere, vol. 11 Psicologia e Religione, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
Jung C.G. (1921), Tipi psicologici, Grandi tascabili economici Newton, Roma, 2012.